Descrizione
Dedico questo libro alla memoria di tutti i reporter che per testimoniare gli orrori e le tragedie delle guerre hanno perso la vita.
In questa guerra il 28 gennaio 1994, a Mostar, hanno perso la vita tre inviati della RAI, Marco Lucchetta (41 anni), Alessandro Ota (37 anni) e Dario D’Angelo (41anni).
In ricordo di Admira Ismic’ e Boško-Bato Brkic’.
Admira era una ragazza musulmana di 25 anni, mentre Boško il suo fidanzato coetaneo era serbo ortodosso. Il 19 maggio del 1993 furono uccisi a Sarajevo, mentre cercavano di fuggire attraversando il ponte Vrbanja, da colpi sparati dai cecchini serbi durante l’assedio della città.
Questo libro è una raccolta di fotografie realizzate dal fotoreporter Marco Lussoso, tra il 1995 e 1999 durante i conflitti bellici della ex Jugoslavia e del Kosovo e poi nel 2005 e 2019 quando ci è tornato per documentare il suo reportage fotografico.
La fotografia, spiega l’autore, “offre un numero di possibilità illimitato per rappresentare le mie idee e rende il racconto accessibile a un pubblico molto ampio”.
Immagini che parlano da sole e che ci consegnano una realtà da day-after che non può lasciarci indifferenti, un reportage per raccontare il tormento che ha afflitto questi territori.
Volutamente le fotografie sono state impaginate in modo “casuale” e non inquadrate nel periodo storico in cui sono state realizzate, perché l’intento è quello di realizzare un racconto basato sul sentimento, sulle emozioni e non sulla storia.
A poche miglia dalla costa adriatica si sono consumati due dei drammi più infamanti per l’Europa civile, popolazioni in croce che hanno pagato problemi vecchi e nuovi.
Foto che ritraggono la città di Travnik sotto l’occupazione dei Serbi, Sarajevo, Pristina, Mitrovica, immagini di una chiesa distrutta a Kijevo, di Knin città liberata nel settembre 1995 dall’esercito croato- bosniaco, la sacca di Bihac, la collina delle lapidi di Sarajevo, un campo di prigionia serbo a Zenica che ci riporta a situazioni che ormai sembravano definitivamente consegnate alla storia, invece, purtroppo, sono di stretta attualità.
Questo libro è un diario che vuole raccontare con immagini nette, crude, essenziali, il passato e il presente dei Balcani, attraverso i segni e la memoria di chi la guerra l’ha vista e subita.
Le immagini di questo libro risvegliano le nostre coscienze e sollecitano l’empatia verso una popolazione che non sa e non può dimenticare, ma che cerca di ritrovare i frammenti di una vita normale che qualcuno gli ha sottratto per sempre.
La storia della Bosnia è una sconfitta per tutti e soprattutto per chi, ancora oggi, non vuole chiamarla con il suo vero nome: genocidio.
Tutto era nelle sfumature del grigio. Grigio l’asfalto coi segni dei bombardamenti, grigie le case distrutte e ancora fumanti. Perciò la pellicola in bianco e nero era una scelta obbligata. I drammatici giorni passati tra i soldati croati e bosniaci e i profughi, Marco Lussoso li racconta così, affrontandoli nella memoria solo da un punto di vista professionale.
E non ci sono dubbi che questo fotografo, partito dalle raffinate immagini della moda e dello sport per approdare ai crudi scatti del reportage di guerra, sia un grande professionista.
L’essenza della fotografia non è il rappresentare, ma il rimemorare”.
Ecco quindi che Marco Lussoso, dopo aver affrontato l’aspetto tecnico della sua scelta, cede alla memoria. “Ho vissuto momenti tristissimi e drammatici durante la mia esperienza in Croazia e in Bosnia-Herzegovina, il pericolo delle mine, alcune segnalate da triangoli rossi ma tantissime ancora da individuare e disinnescare, i cecchini che sparavano a chiunque capitasse loro a tiro, specialmente a noi fotoreporter, cameraman e giornalisti perché così la risonanza mediatica era maggiore.
Il vedere corpi inermi straziati lungo le strade mi devastava il cuore ma io ero lì per testimoniare con le mie macchine fotografiche e dovevo rimanere freddo e impassibile, se un reporter si fa coinvolgere emotivamente da quello che gli accade intorno, non riesce più a svolgere il proprio lavoro, può sembrare cinismo ma è la cruda verità. In alcune situazioni particolarmente delicate ho chiesto sempre il permesso di poter scattare qualche fotografia alle persone direttamente interessate. E’ difficile trovare un equilibrio tra il raccontare le storie e mostrare il giusto rispetto nei confronti delle persone stesse”.
Dicevano che il fotogiornalismo di guerra fosse finito con la guerra del Vietnam. Nel 1988 Tim Page aveva pubblicato “Requiem” omaggio ai trentacinque fotoreporter morti in Vietnam, perché erano nel cuore del conflitto, mentre oggi sono schiacciati tra la censura e la propaganda. Il titolo voleva essere una prece non solo per i colleghi deceduti ma anche per un genere giornalistico che appariva sepolto per sempre. La guerra del Golfo era stata la tomba del fotogiornalismo, strozzato dal rigido controllo militare, dalla mancanza di azione e soprattutto dalla televisione globale.
Con la guerra dei Balcani c’è stato un parziale riscatto per resuscitare il vero modo di fare fotogiornalismo.
Ai giorni nostri si assiste a un nuovo fenomeno: non sono più le “firme” che fanno la foto, ma le immagini che creano le “firme”. E il fotogiornalismo dei reporter d’assalto delle grandi agenzie, ma anche dei dilettanti che hanno fissato certi momenti con macchine fotografiche da pochi soldi o addirittura realizzate coi cellulari.
Marco, qual’è stata la tua esperienza nei Balcani?
“Ricordi indelebili e altri momenti completamente rimossi…
Ho stretto rapporti di amicizia e collaborazione con altri colleghi conosciuti sul campo, la paura e il pericolo ci hanno fatto subito stringere un senso di unione e protezione reciproca. A un certo punto mi sono reso conto che il pericolo era diventato altissimo e insostenibile perché noi reporter eravamo diventati i bersagli dei soldati e dei cecchini. Volevano che ce ne tornassimo nei nostri Paesi così non ci sarebbero state testimonianze delle atrocità commesse.
Che potessi morire era un fatto che ho sempre tenuto a mente. Quando decidi di fare questo mestiere devi comunque essere consapevole della possibilità di non tornare, l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e probabilmente non sai mai veramente quando e quanto sei stato veramente vicino a quella eventualità. Fare il mestiere di fotoreporter significa infatti essere tutti i giorni in contatto con l’inferno, difficile non portarsi dietro tutto quell’orrore. Le persone che incontri e fotografi, spesso vittime di violenze e abusi di ogni tipo, mi hanno trasmesso una dignità che non si può ignorare una volta tornati a casa. Sicuramente è cambiata la mia quotidianità e per questo motivo ho voluto portare mio figlio Luca, nel 2005, a visitare quelle città che erano state martoriate dalla guerra e ad avere un enorme rispetto per le persone che sono sopravvissute. Mi auguro abbia capito il valore di quel viaggio fatto insieme”…
Dimmi di più di questo libro?
“E’ una raccolta di alcune fotografie realizzate tra il 1995 e il 2019, le più cruente ho volutamente evitato di pubblicarle, contrariamente a quello che si pensa o si crede, le immagini “intrise di sangue” non sono necessariamente quelle che ci scuotono di più. Di fronte alle immagini troppo crudeli giriamo lo sguardo dall’altra parte, non resistiamo.
Il messaggio è: ho pietà di te, ma non posso sopportare di guardare”.
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